Non so perché, ma scrivo...


La situazione è degenerata rapidamente.
Il mio nome è Michele e vivo a Forlì, in un quartiere che si chiama Ronco. Se leggete i giornali saprete che la malattia, la “Gialla”, come la chiamano in molti, si è diffusa anche qui in Romagna, come c'era da attendersi. L'Italia, e il mondo intero, sono ormai nel caos.
Mi sono deciso a scrivere questa specie di diario per un sacco di motivi, e per nessuno che abbia davvero un senso. Girando per il web ho trovato altri come me, che fanno la stessa cosa. Forse lo spunto l'ho preso da loro. Forse lo faccio per condividere le mie esperienze di sopravvivenza in una città che sta velocemente precipitando nell'oblio. Forse lo faccio per solitudine, o per riempire i tempi morti, mentre all'esterno di casa mia sempre più di frequente sento urla, spari, a volte esplosioni... C'è un pennacchio di fumo grigio proprio davanti alla mia finestra, in questo momento, che si alza dal palazzo di fronte. Poco fa è passato un elicottero dei carabinieri, ma di quelli ne vedo sempre meno.
La gente viene infettata a un ritmo vertiginoso. Basta davvero un niente, una goccia di sangue, un po' di saliva, e diventi un giallo anche tu. Non subito, naturalmente, la trasformazione è lenta ma inesorabile. Più spesso però i contagiati ti uccidono. Sembrano essere assetati del nostro sangue, affamati della nostra carne... Perché non si mangiano tra di loro, mi chiedo io.
L'altro giorno mi sono arrischiato a uscire per fare un po' di scorte, cibo soprattutto. Il Conad di via Vassura era abbandonato, le vetrate infrante e la maggior parte della merce saccheggiata. Ho trovato un paio di cartoni di scatolette nel magazzino, dietro una pila di rifiuti, e qualche confezione di cibo per cani, ma di acqua non ce n'era più. Non mi fido di quella del rubinetto, però non posso fare diversamente; la faccio bollire a lungo, prima di berla, e spero basti. C'era uno dei contagiati, dentro al supermercato, una ragazza. Me la ricordo bene, faceva la commessa. Era sempre gentile e mi salutava con un grande sorriso tutte le volte. Ho avuto paura. Gli ho tirato addosso uno scaffale, quando si è avvicinata, e credo di averla uccisa. Non avevo mai ucciso nessuno... ma temo che col tempo possa diventare la routine. Che cosa triste. Si chiamava Romina, e dall'altro giorno tutte le sere non faccio che rivedere il suo sorriso, così luminoso e dolce...
Devo iniziare a organizzarmi seriamente. Devo procurarmi delle armi. I coltelli e la katana sono più un rischio che una protezione. Mi serve una pistola, o meglio, un fucile, e tante munizioni. Devo trovare gente in gamba con cui fare un piano di sopravvivenza, anche se, a cominciare dai miei vicini, tutti sembrano ormai diffidare di tutti. Ieri ho tentato di parlare con quello che abita al primo piano, nemmeno so come si chiama, e lui per tutta risposta mi ha chiuso la porta in faccia. Si isolano, per evitare il contagio, si nascondono come conigli, come del resto sto facendo io, attendendo chissà quale miracolo.
Se siete nella mia situazione, se siete dei sopravvissuti e leggete queste righe, vi invito a fare come me, a scrivere sul vostro blog o anche solo a commentare il mio e quello degli altri sopravvissuti; ho dedicato uno spazio nella colonna a sinistra a quei pochi che per ora ho trovato. Condividendo le nostre esperienze forse potremo aiutarci a vicenda e trovare un modo per uscire da questo incubo. Ma credo sia una speranza assurda. È che mi sento così demotivato, così solo...
Mi chiedo come stiano i miei amici, se siano ancora vivi. Paolo, Vanes, Chiara, Stefano... Nei prossimi giorni dovrò uscire per procurarmi altro cibo. Forse andrò a cercarli.
Ma ora devo staccare. Qualcosa, o “qualcuno”, sta grattando alla mia porta già da alcune ore. È un suono inquietante che non riesco più a sopportare. Bisogna che vada a vedere...

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